L’articolo 314 del Codice di procedura penale disciplina l’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione che un soggetto abbia subito nel corso di un procedimento penale.
È bene precisare come l’istituto in oggetto non abbia carattere risarcitorio (e quindi non disciplini un diritto al risarcimento del danno in favore del soggetto che ne abbia i requisiti) bensì indennitario, quale riparazione di natura solidaristica per le conseguenze derivanti da un fatto ingiusto seppur lecito.
In altre parole la norma riconosce all’interessato un diritto ad un equo indennizzo, che lo ristori dai patimenti derivanti dall’ingiusta detenzione subita.
Quali Sono i Requisiti?
Il presupposto fondamentale di tale istituto è che il soggetto sia stato sottoposto ad una custodia cautelare, e quindi ad una delle due misure di carattere custodiale previste dal nostro Ordinamento: la custodia cautelare in carcere e gli arresti domiciliari.
La giurisprudenza ha inoltre riconosciuto che il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione spetta anche al soggetto cui sia stata applicata provvisoriamente una misura di sicurezza (in particolare quelle del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario e del ricovero in una casa di cura – secondo l’attuale definizione R.E.M.S.).
L’ulteriore presupposto fondamentale è che il soggetto sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile con una delle seguenti formule assolutorie: perché il fatto non sussiste; per non avere commesso il fatto; perché il fatto non costituisce reato; perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
A tal fine la giurisprudenza ha precisato come non debba differenziarsi l’ipotesi in cui la sentenza sia stata emessa ai sensi del primo o del secondo comma dell’articolo 530 del Codice di procedura penale (quindi per l’accertamento positivo della non colpevolezza, oppure per insufficienza o contraddittorietà della prova).
A tale situazione è parificata anche la situazione del soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere (quindi sia stato prosciolto nel corso dell’udienza preliminare) o un provvedimento di archiviazione.
Inoltre avrà diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione anche chi sia stato prosciolto o condannato, nel caso in cui con provvedimento irrevocabile sia stato accertato che la custodia cautelare fu applicata, o mantenuta, senza che sussistessero i presupposti di cui agli articoli 273 e 280 del Codice di procedura penale (ovvero i gravi indizi di colpevolezza o le condizioni generali di applicabilità delle misure coercitive).
Oltre alle ipotesi sopra richiamate (espressamente codificate dal Legislatore) la giurisprudenza – e soprattutto la Corte Costituzionale – nel tempo hanno avuto modo di ampliare il diritto all’indennizzo ad ulteriori casistiche.
Ad esempio si è ritenuta indennizzabile: la carcerazione ingiustamente patita a causa di un erroneo o illegittimo ordine di esecuzione della pena; la custodia cautelare patita nel caso di proscioglimento per precedente giudicato ex art. 649 C.P.P. (cosiddetto “ne bis in idem”); la porzione di custodia cautelare subita in misura eccedente alla pena effettivamente irrogata all’esito del giudizio.
Secondo un orientamento giurisprudenziale più recente e maggioritario il diritto all’equo indennizzo spetta altresì nell’ipotesi in cui il soggetto che venga sottoposto a custodia cautelare sia successivamente prosciolto per mancanza di una condizione di procedibilità (come la querela nei reati procedibili a querela di parte) all’esito di un giudizio nel corso del quale il Giudice abbia diversamente qualificato il fatto dal punto di vista giuridico, in un reato che necessiti della condizione di procedibilità.
Ma i presupposti appena richiamati non sono sufficienti a far sorgere il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione: in altre parole essere stati assolti in un procedimento durante il quale si è stati sottoposti a custodia cautelare non basterà per ottenere il diritto all’equo indennizzo.
Infatti la legge prevede un ulteriore requisito, di natura non compiutamente determinata e quindi interpretabile: occorre infatti che il comportamento, doloso o gravemente colposo, dell’interessato non abbia dato causa o concorso a dare causa alla custodia cautelare.
Si tratta di una formula aperta, che nel tempo ha trovato differenti interpretazioni ed è stata spesso fonte di rigetti di richieste di riparazione per ingiusta detenzione.
Se ovviamente l’ipotesi di concorso doloso da parte dell’interessato nella causazione della detenzione è di agevole comprensione e delimitazione (potendosi ad esempio enunciare il caso di chi si sia falsamente autoaccusato del reato) più problematico appare tracciare i confini dei possibili comportamenti colposi che possano escludere il diritto all’indennizzo.
Si tratta di condotte colpose attraverso le quali l’interessato, per evidente e macroscopica negligenza, trascuratezza, imprudenza, inosservanza di norme giuridiche abbia determinato una situazione, certamente non voluta, ma concretamente e prevedibilmente idonea a determinare un intervento dell’Autorità e la conseguente applicazione della custodia cautelare; oppure condotte che, dopo la formulazione dell’accusa e l’applicazione della custodia cautelare o la conoscenza dell’esistenza del procedimento a proprio carico, si caratterizzino per una trascuratezza e negligenza assolutamente contrarie alla normale ed ordinaria diligenza, come ad esempio non indicare elementi – pur conosciuti – a proprio discarico, quali l’esistenza di un alibi o altre circostanze di fatto che – se conosciute dall’Autorità – avrebbero evitato o fatto cessare la custodia cautelare.
Il “Diritto al Silenzio”
Sul punto si è rivelata molto problematica la valutazione della condotta dell’interessato che si sia avvalso della facoltà di non rispondere, decidendo di non sottoporsi agli interrogatori del processo.
In molti casi infatti tale condotta è stata ritenuta idonea ad integrare il requisito della colpa grave, ostativo al riconoscimento del ristoro per l’ingiusta detenzione. Si è tuttavia osservato come l’esercizio di un diritto garantito dall’Ordinamento (il cosiddetto “diritto al silenzio”) da parte dell’imputato non possa essere foriero di conseguenze giuridiche sfavorevoli, in quanto espressione di una facoltà difensiva riconosciuta dalla legge.
In linea generale la giurisprudenza ha spesso ritenuto che il mero fatto di essersi avvalsi della facoltà di non rispondere non sia bastevole per negare il diritto al ristoro, qualora non sia accompagnato anche dalla mancata allegazione di circostanze ed elementi difensivi idonei a determinare la cessazione della custodia cautelare.
A Quanto Ammontano gli Indennizzi
Con riferimento all’importo liquidabile dal Giudice in materia di riparazione per ingiusta detenzione è bene premettere che – non trattandosi di un risarcimento del danno – la quantificazione concreta del ristoro sarà rimessa ad una valutazione equitativa e discrezionale.
Ovviamente dovrà essere valorizzata soprattutto la durata dell’ingiusta custodia subita, senza tuttavia tralasciare di valutare le eventuali ulteriori conseguenze di natura patrimoniale, familiare, lavorative o personali cui l’interessato sia stato esposto in ragione della detenzione, e che abbia potuto documentare e provare al Giudice.
In ogni caso la legge fissa in Euro 516.456,90 il tetto massimo dell’indennizzo liquidabile a titolo di riparazione per ingiusta detenzione.
Un utile criterio, di creazione giurisprudenziale, che può guidare il Giudice nella determinazione dell’ammontare del ristoro è quello secondo il quale – in linea di massima – ogni giorno di custodia patito sarebbe indennizzabile con Euro 235,82; a tale cifra si giunge dividendo l’ammontare massimo indennizzabile (Euro 516.456,90) per il termine massimo di possibile sottoposizione alla custodia cautelare stabilito dal nostro Ordinamento (sei anni).
Dove Presentare la Domanda?
La domanda di riparazione per ingiusta detenzione deve essere presentata, personalmente dall’interessato o a mezzo di un procuratore speciale appositamente nominato, entro il termine – stabilito a pena di decadenza – di due anni dal giorno in cui la sentenza di proscioglimento sia divenuta irrevocabile, o la sentenza di non luogo a procedere inoppugnabile, ovvero sia notificato all’interessato il provvedimento di archiviazione.
Il Giudice competente a decidere in materia di riparazione per ingiusta detenzione è la Corte di Appello del circondario nel quale è stato emesso il provvedimento assolutorio; se il provvedimento liberatorio sia stato emesso dalla Corte di Cassazione sarà competente la Corte di Appello nel cui distretto fu emesso il provvedimento impugnato.
Sono in ogni caso applicabili, in quanto compatibili, le norme stabilite in materia di riparazione dell’errore giudiziario.
Il procedimento si svolge in camera di consiglio, previa notifica della richiesta al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che può intervenire nel procedimento per contrastare la pretesa di indennizzo; il provvedimento emesso dalla Corte di Appello è ricorribile per Cassazione.